Il mito aracnideo

Donna tarantata che esegue il ciclo coreutico in Il luogo del culto: Galatina, immagini del tarantismo: 1970-1992, (Pilgrimage to Galatina: Images of Tarantismo 1972-1992), Photos from the collection of LUIGI CHIRIATTI, taken in Galatina, the traditional pilgrimage site of Salentine tarantati

Come in Puglia si fa contro il veleno
Di quelle bestie che mordon coloro
Che fanno poi pazzie da spiritati
E chiamansi in volgar tarantolati,
e bisogna trovar un che, suonando
un pezzo, trovi un suon ch’al morso piaccia,
sul qual ballando e nel ballar sudando
colui da se la fiera peste caccia.


Così scriveva Francesco Berni nell’Orlando Innamorato nel Cinquecento, quando già si parlava di tarantolati, uomini che venivano guariti dal morso di un misterioso ragno velenoso, chiamato volgarmente tarantola, al suono di tamburi e violini…

Ma cos’è davvero il tarantismo, e cosa c’è oltre queste misteriose parole?

Si da per certo che nasce nel Salento, la parte meridionale della Puglia per estendersi in tutto il Barese ed ancora dal Materano all’area ionica della Basilicata, luoghi che ancora oggi reinterpretano il ruolo della terra del mito aracnideo e attorno ai suoi balli crescono l’interesse e l’esigenza di scavare nel profondo.

Per avvicinarci al mondo mitico del tarantismo occorre fare alcuni passi indietro. Occorre immaginare un universo arcaico, rurale e contadino come poteva essere quello del Mezzogiorno d’Italia fino ad una cinquantina di anni addietro, antecedente dunque all’avvento dei grandi mezzi di comunicazione di massa.

Era l’epoca in cui l’Italia stava conoscendo quello che sarà il famoso boom economico, allontanandosi dalla miseria e dal disastro bellico con il miraggio dell’industria davanti a sé e la centenaria civiltà contadina da lasciarsi alle spalle.

Il Sud però era una terra ancora chiusa in se stessa, esclusa dalla storia e dalla economia ufficiali e per poter sopravvivere a questa esclusione non aveva altro mezzo che strutturarsi fortemente intorno alle proprie tradizioni.

Inoltre è indispensabile pensare ad un mondo in cui non avevano fatto ancora ingresso le terapie psicoanalitiche né tanto meno farmaci come il Prozac o altri antidepressivi, né tutto il complesso armamentario chimico con cui oggi noi moderni tentiamo disperatamente di tenere a bada l’infelicità.

Ma la tristezza, allora, era di casa e contro di essa bisognava prendere le dovute contromisure, le giuste armi.



Molti uomini si armarono di musica.

Strumenti musicali, strumenti per suonare una musica che si chiamerà tarantella in nome del piccolo ragno velenoso (tarantola) che morsicava – pizzicava, e il ballo guaritore a lui dedicato prenderà il nome di pizzica tarantata o tarantella tarantata.

Un suono violento, ripetitivo, ipnotico, che nulla ha a che fare con la tarantella più allegra e consolatoria della tradizione napoletana che a questa succederà.

Una musica che veniva danzata per giorni e giorni con l’auspicio di scacciare il veleno iniettato dal misterioso ragno che possedeva l’anima del tarantato il quale, inconsapevolmente, si affidava alla consuetudine del rito coreutico, rituale di terapia coreico-musicale. Una sorta di danza a carattere sintomatologico-terapeutico ed estatico.

Il rito, che in genere è un insieme di gesti, parole e oggetti ordinati da un’autorità che ne detiene il senso, avendone formato il codice e le norme, è una manifestazione collettiva, condivisa da più persone che nello stesso momento ne condividono il significato.

Il rito, quindi, si adatta ai significati socio-culturali condivisi dalla società che prende coscienza di se stessa e della realtà che la circonda.